Il grande Gatsby, F.S. FITZGERALD – Cap VI

«Buonanotte, Nick,» disse Daisy.

Il suo sguardo mi abbandonò per mirare verso la parte più alta ed illuminata dei gradini dove la musica di “Three o’Clock in the Morning”, un piccolo valzer di quell’anno, grazioso e triste, giungeva attraverso la porta aperta. Dopo tutto, nella grande apatia delle feste di Gatsby, c’erano dei momenti romantici che erano completamente ignoti al suo mondo. Cosa c’era in quella musica che sembrava la richiamasse indietro? Cosa sarebbe accaduto ora, in quelle ore confuse ed imprevedibili? Forse sarebbe arrivata un’ospite incredibile, un personaggio rarissimo di cui stupirsi, una fanciulla autenticamente radiosa che con la freschezza di uno sguardo a Gatsby, nell’istante di un magico incontro, avrebbe annullato quei cinque anni di devozione assoluta.

Rimasi fino a notte fonda. Gatsby mi chiese di restare finché  non fosse stato più libero ed io mi attardai in giardino finché l’inevitabile gruppetto della nuotata notturna non rientrò di corsa, infreddolito ed euforico, dalla spiaggia scura e si spensero le luci nelle stanze degli ospiti al piano di sopra. Quando scese i gradini, alla fine, la pelle abbronzata del suo viso era insolitamente tesa; aveva gli occhi lucidi e stanchi.

«Non le è piaciuto», disse quasi subito.

«Al contrario.»

«Non le è piaciuto», insisté lui. «Non s’è divertita.»

Era silenzioso ed io facevo congetture sulla sua impalpabile depressione.

«Mi sento molto lontano da lei,» disse. «È difficile farle capire.»

«Intendi il ballo?»

«Il ballo?» Scartò tutti i balli che aveva dato con uno schiocco di dita. «Vecchio mio, i balli non sono importanti.»

Pretendeva che Daisy andasse da Tom e gli dicesse nientemeno: “Non ti ho mai amato.” Dopo aver cancellato tre anni con questa frase, avrebbero potuto decidere quali fossero le misure più pratiche da prendersi. Una delle quali sarebbe stata che, quando lei fosse tornata libera, loro sarebbero rientrati a Louisville per sposarsi nella sua casa – proprio come cinque anni prima.

«E lei non capisce», disse. «Prima mi seguiva. Passavamo ore e ore…»

Troncò e cominciò a passeggiare su e giù per un sentiero desolato, di bucce di frutta, carte e fiori calpestati.

«Non le chiederei troppo», rischiai. «Non si può ripetere il passato.»

«Non si può ripetere il passato?» gridò incredulo. «Perché? Certo che si può!»

Si guardò attorno come un selvaggio, quasi che il passato fosse lì in agguato, nell’ombra della sua casa, appena fuori dalla portata delle sue mani.

«Sistemerò tutto proprio com’era prima,» disse scuotendo il capo con determinazione. «Lei vedrà.»

Parlò a lungo del passato ed io immaginai che volesse recuperare qualcosa, qualche idea di se stesso forse, che si riallacciava all’amore per Daisy. La sua vita era stata confusa e disordinata da allora, ma se avesse potuto tornare al punto di partenza e ricominciare lentamente daccapo, avrebbe potuto capire cos’era…

…Una notte d’autunno, cinque anni prima, passeggiavano lungo una strada mentre cadevano le foglie ed erano giunti in un luogo dove non c’erano alberi e il marciapiede era bianco come il chiaro di luna. D’un tratto s’erano fermati e voltandosi l’uno verso l’altra, avevano preso a guardarsi. Era una notte fresca, con quella misteriosa eccitazione che si sviluppa nei due cambi di stagione dell’anno. Le luci fioche nelle case ronzavano nell’oscurità e tra le stelle c’era un vago fruscio e un bisbiglio. Con la coda dell’occhio Gatsby vide che i mattoni del marciapiede formavano, in realtà, una scala che saliva verso un luogo segreto al di sopra degli alberi; avrebbe potuto seguirla se fosse stato solo e, una volta giunto lì, succhiare il capezzolo della vita per bere con voluttà l’incomparabile latte della meraviglia.

Il suo cuore batteva sempre più forte mentre il viso candido di Daisy si avvicinava al suo. Sapeva che quando l’avrebbe baciata, unendo per sempre le sue ineffabili visioni al respiro delicato di lei, la sua mente non avrebbe più giocato come quella di Dio. Così aspettò, ascoltando per un lungo istante il perfetto diapason suonato su una stella. Poi la baciò. Al tocco delle sue labbra lei sbocciò come un fiore e l’incarnazione fu completa.

Tutto ciò che disse, anche col suo scioccante sentimentalismo, mi fece tornare in mente qualcosa: un ritmo sfuggente, un frammento di parole perdute, che avevo ascoltato, da qualche parte, molto tempo prima. Per un momento una frase tentò di prender forma nella mia bocca e le labbra si schiusero come quelle di un muto, quasi fossero impegnate in una dura lotta, trattenute da un filo di allarme nell’aria. Ma non emisero suono e ciò che avevo quasi ricordato restò inespresso per sempre.

Umiltà, DON PAOLO SPOLADORE

Da quando l’uomo è scappato dall’armonia divina, ha voluto ubriacare il suo cuore e la sua mente di ogni ambizione, successo e vanità possibili e ha perso la più alta forma di intelligenza, la più elevata possibilità di comprensione, la più potente delle armonie interiori, la più profonda espressione dell’amore, l’umiltà. L’umiltà è già, è sempre e per sempre sarà semplicemente la più alta. Più alta della ragione, delle parole, dei discorsi, delle argomentazioni, dell’intelligenza e si raggiunge con un passo. Un solo piccolo passo, un passo all’indietro, verso se stessi, dentro se stessi, guardando le stelle.

Tratto dalla parola del giorno, 18 marzo 2014

INCONTRARSI, INCROCIARSI

Perché è difficile “incontrarsi veramente”: difficile sebbene ogni passo sia incrocio ed occasione d’un perpetuo incrociarci. Avete mai pensato, a tal proposito, a quanta gente passa sotto i nostri occhi, ogni giorno??

Quando ci penso, mi spiazza profondamente sapere che tutte le persone intraviste meritino molto più di uno sguardo – magari sfuggente – perché non sono “operose formiche farfalle”, ma creature quanto me, con una storia, una vita, dei segreti, una canzone o una maglietta preferita, una ferita da qualche parte o una cosa bella custodita come gioia infinita…

Se penso poi che nelle popolazioni primitive, gli sconosciuti erano trattati con tutti i riguardi del caso – in chi s’incontrava poteva nascondersi un “dio”– e rapporto quell’atteggiamento alla quotidianità, mi coglie un profondo dispiacere perché tutti noi stiamo perdendo non solo la possibilità di incontrare la divinità, ma anche l’uomo, perché stanno uno dentro l’altro, come il seme col frutto.

A Korogocho, camminando dal nostro alloggio al Boma Rescue Center – la scuola sulla discarica –  dovevamo attraversare il fiume Nairobi, grazie ad un piccolo ponte: quando vi eravamo sopra, si potevano scorgere lungo la  riva, donne intente a lavare, non panni,ma spazzatura per poterla poi vendere.

Di loro abbiamo sempre visto – siamo davvero sicuri di averle viste, non erano sirene? – le schiene curve: mai il viso, mai gli occhi…

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Abbiamo il piacere di invitarvi ad un momento d’incontro, con due ragazzi che son nati e vivono Korogocho: abbiamo organizzato con loro una due giorni, il 29 e 30 marzo, in un rifugio situato nel parco dell’Adamello. Alleghiamo pertanto la locandina dell’iniziativa: come potrete leggere si è programmato un cineforum ed un laboratorio anche se in fin dei conti vorremmo semplicemente incontrarci e lasciar che le cose e le parole, semplicemente accadessero.

RIII – RICCARDO TERZO: una gassmannata!

Vai a teatro perché in cartello c’è il Riccardo III di Shakespeare e sei felice: la sapienza del bardo, la sua scrittura, i dialoghi, i suoi intrecci, la sua intelligenza morale diviene una garanzia, un  caposaldo di bellezza che nessuna traduzione o regia può violare.

Ed invece RIII – Riccardo Terzo lavorato da Gassmann figlio e tradotto, adattato (bistrattato?) da Trevisan diviene un qualcosa d’altro, una narcisistica personalissima interpretazione condita fra l’altro con gag da cabaret e qualche “cazzo” qui e là, che se fan ridere il pubblico, fan disperare chi vede in simili “giochetti” solo un modo – il più volgare – per strizzare l’occhio agli spettatori.

Son stato colto dall’imbarazzo nel vedere una regia, che ragiona, pensa e fa del cinema in teatro, che costruisce una scena inventando un omicidio attraverso una radio gettata in una vasca, con effetti speciali alla Frankestein; che mette musica – spesso è solo un basso continuo che anziché dare atmosfera diviene noia  – ovunque per riempire il silenzio e distrarre dalla parola; che sfruttando ologrammi e proiezioni da vita a candele e a un focolare senza motivo, ma che soprattutto proiettano il volo di un uccello nel bosco: a teatro per mostrare ad un pubblico il volo di un uccello, non lo si deve proiettare: basta il suo verso dalle quinte, basta uno sguardo che attraversi la scena!

Gassmann è figlio d’arte ed è soprattutto per questo che reputo imperdonabile una interpretazione di Shakespeare, che si disinteressa di quella grammatica che rende il linguaggio teatrale, diverso da tutti gli altri linguaggi. Mi ha infastidito poi essere ingannato dal finto incedere del suo personaggio con uno zoppicare che passava dalla gamba destra alla gamba sinistra. E dal fastidio si è passati poi all’imbarazzo nell’udire nella sua interpretazione, allorquando compiva uno sforzo, l’emissione di un verso gutturale alla Hulk…Riccardo III è un altro tipo di mostro!!!

Al solito, quando nel cast o alla regia di uno spettacolo teatrale c’è un nome televisivo, c’è sempre il rischio di vivere quel dispiacere che sa di tradimento verso il teatro e di disonestà verso il pubblico. Dispiacere che è giusto ripagare senza applausi e abbandonando la sala quando lo si ritiene più opportuno: per me, subito dopo l’intervallo.