31 luglio 1910 – 11 aprile 1987, Primo Levi – IN FRONTE SCRITTO

Alle nove del mattino, quando Enrico entrò, sette altri stavano già aspettando; si sedette, e scelse una rivista dal mucchio che stava sul tavolo, la meno cincischiata che trovò: ma era una di quelle pubblicazioni oltraggiosamente inutili e noiose che confluiscono, nessuno sa come, appunto là dove è gente costretta all’attesa, che non si capisce chi si prenda la briga di cavare dal nulla, e che nessun uomo pensante potrebbe proporsi di leggere: più vuote, mercenarie e volgari degli stessi cinegiornali. Quella, in ispecie, trattava degli artigianati regionali, era edita sotto gli auspici di un Ente mai sentito, e in ogni pagina c’era un sottosegretario che tagliava un nastro. Enrico posò la rivista e si guardò intorno.

Due avevano l’aria di pensionati, e le mani grosse e nodose; c’era una donna sulla cinquantina, dall’aspetto stanco, vestita dimessamente; gli altri quattro sembravano studenti. Passò un quarto d’ora, la porta in fondo si apri, ed una ragazza sofisticata in grembiule giallo chiese:

– Chi è il primo? –

Passarono solo tre o quattro minuti, e la ragazza ricomparve; Enrico si volse al suo vicino, che era uno degli studenti, e gli disse:

– Pare che si vada veloce -.

L’altro rispose di malumore e con aria di esperto:

– Mica detto -.

Quanto volentieri, facilmente e presto ci si assume la parte del vecchio esperto, anche solo in un’anticamera! Ma l’esperto di turno doveva aver ragione: prima che passasse il terzo trascorse mezz’ora buona, e frattanto erano entrati altri due «nuovi».

Enrico si percepì inequivocabilmente vecchio ed esperto rispetto a loro, che del resto si guardavano intorno con la stess’aria spaesata che Enrico aveva avuta mezz’ora prima.

Il tempo passava lentamente: Enrico sentiva il ritmo cardiaco accelerare sgradevolmente, e le mani diventare fredde e sudate. Gli pareva di essere in attesa dal dentista o di dover passare un esame, e pensava che tutte le attese sono spiacevoli, chissà perché, forse perché gli eventi lieti sono più rari di quelli tristi. Ma sono spiacevoli anche le attese degli eventi lieti, perché ti mettono in ansia, e non sai mai bene chi avrai davanti, che faccia ti farà e che cosa dovrai dire; poi, comunque vada, è sempre tempo non tuo, tempo che ti viene rubato dallo sconosciuto che sta dall’altra parte del muro. Insomma, non ci fu modo di stabilire un tempo medio per il colloquio. Le apparizioni della ragazza avvenivano con intervalli varianti da due minuti (per uno dei pensionati) a tre quarti d’ora (per uno studente molto bello, con la barba bionda e gli occhiali cerchiati d’acciaio): quando Enrico passò, le undici non erano lontane.

Fu introdotto in un ufficio freddo e pretenzioso; alle pareti erano appese pitture informali e fotografie che rappresentavano volti umani, ma Enrico non ebbe tempo di osservarle da vicino, perché un funzionario lo invitò a sedere presso la scrivania. Era un giovanotto dai capelli tagliati a spazzola, abbronzato, alto ed atletico; aveva all’occhiello una targhetta con su inciso «Carlo Rovati», e portava scritto sulla fronte, in nitidi caratteri blu stampatelli: «FERIE IN SAVOIA».

– Lei ha risposto al nostro annuncio sul «Corriere», -lo informò gioviale. – Penso che non ci conosca, ma ci conoscerà presto, sia che troviamo un accordo, sia che non lo troviamo. Noi siamo gente aggressiva, che va subito al sodo e non fa complimenti. Nel nostro annuncio si parlava di un lavoro facile e ben retribuito; qui le posso aggiungere che si tratta di un lavoro talmente facile che non lo si può neppure chiamare lavoro: è piuttosto una prestazione, una concessione. Quanto al compenso giudicherà lei stesso.

Il Rovati si interruppe un momento, osservò Enrico con aria professionale, chiudendo un occhio ed inclinando il capo prima a sinistra e poi a destra, e infine aggiunse:

– Lei andrebbe proprio bene. Ha un viso aperto, positivo, non brutto e insieme non troppo regolare: un viso che non si dimentica facilmente. Le potremmo offrire… – e qui aggiunse una cifra che fece sobbalzare Enrico sulla sedia.

Bisogna sapere che questo Enrico doveva sposarsi, e di quattrini ne aveva e ne guadagnava pochi, e che era uno di quei tipi che non amano fare il passo più lungo della gamba. Intanto il Rovati continuava:

– Lei lo avrà già capito: si tratta di una nuova tecnica di promozione, – (e qui accennò con disinvolta eleganza alla sua fronte). – Lei, se accetta, non sarà impegnato per nulla per quanto riguarda il suo comportamento, le sue scelte e le sue opinioni: io, per esempio, in Savoia non ci sono stato mai, né in ferie né altrimenti, e neppure penso di andarci. Se riceverà commenti, risponderà come le pare, anche smentendo il suo messaggio, o non risponderà affatto: insomma, lei ci vende o ci affitta la sua fronte, e non la sua anima.

– La vendo o la affitto?

– La scelta sta a lei: noi le proponiamo due forme di contratto. La cifra che le ho esposto è per un impegno triennale: lei non ha che da passare al nostro centro grafico, che è qui al piano terreno, riceve la scritta, passa alla cassa, e ritira l’assegno. Oppure, se preferisce un impegno più breve, diciamo trimestrale, la procedura è la stessa, ma l’inchiostro è diverso: sparisce da sé, in tre mesi circa, senza lasciare traccia. In questa alternativa, va da sé che il compenso è di parecchio inferiore.

– Invece, nel primo caso, l’inchiostro dura tre anni?

– No, non precisamente. I nostri chimici non sono ancora riusciti a formulare un inchiostro dermografico che duri tre anni netti, e poi scompaia senza impallidire prima. L’inchiostro triennale è indelebile: al termine del terzo anno lei ripassa qui un momento, si sottopone ad un breve intervento assolutamente indolore, e riacquista la faccia di prima; a meno che, naturalmente, il nostro committente e lei non vi troviate d’accordo nel rinnovare il contratto.

Enrico era perplesso, non tanto per sé quanto per Laura. Quattro milioni sono quattro milioni, ma Laura che cosa avrebbe detto?

– Non ha mica da decidere cosi, su due piedi, – intervenne il Rovati, come se gli avesse letto nel pensiero. – Lei va a casa, ci pensa, si consulta con chi vuole, poi viene qui e firma. Ma entro una settimana, per favore: sa bene, abbiamo da studiare i nostri piani di sviluppo.

Enrico si senti sollevato. Chiese:

– Potrò scegliere la scritta?

– Entro certi limiti, si: le daremo una lista con cinque o sei alternative, e lei deciderà. Ma in ogni caso, non si tratterà che di poche parole, eventualmente accompagnate da un marchio.

– E… vorrei sapere: sarei io il primo?

– Vorrà dire il secondo, – sorrise il Rovati, indicando nuovamente la sua fronte. – Ma non sarà neppure il secondo. Solo in questa città abbiamo già concluso… attenda: ecco, ottantotto contratti; quindi non abbia timore, non si troverà solo, e neppure dovrà dare troppe spiegazioni. Secondo le nostre previsioni, entro un anno la pubblicità frontale diventerà un lineamento di tutti i centri urbani, forse addirittura un segno di originalità e di prestigio personale, come il distintivo di un club. Pensi che quest’estate abbiamo concluso ventidue contratti stagionali a Cortina, e quindici a Courmayeur, sulla base del solo vitto e alloggio per il mese di agosto!

Con stupore di Enrico, e con un certo suo disagio, Laura non esitò neppure un minuto. Era una ragazza pratica, e gli fece presente che con quattro milioni la faccenda dell’alloggio sarebbe stata sistemata; non soltanto, ma i milioni, invece che quattro, avrebbero potuto diventare otto, o forse anche dieci, e allora si sarebbe risolta anche la questione dei mobili, del telefono, del frigo, della lavatrice e della ottocentocinquanta. E come dieci? Ma era chiaro! Si sarebbe fatta scrivere anche lei, e una coppia giovane, graziosa, con in fronte due inviti fra loro complementari, valeva certamente di più della somma di due fronti scompagnate: quella gente lo avrebbe riconosciuto senza difficoltà.

Enrico non mostrò molto entusiasmo: primo, perché l’idea non era venuta a lui; secondo, perché anche se gli fosse venuta non avrebbe osato proporla a Laura; terzo, perché insomma, tre anni sono lunghi, e gli sembrava che una Laura marcata come si fa coi vitelli, e marcata proprio su quella sua fronte cosi pulita, cosi pura, non sarebbe stata la stessa Laura di prima. Tuttavia si lasciò convincere, e due giorni dopo si presentarono entrambi all’agenzia e chiesero del Rovati: ci fu una contrattazione, ma neanche tanto accanita, Laura espose le sue ragioni con garbo e convinzione, al Rovati la sua fronte doveva essere piaciuta fin troppo, e in buona sostanza i milioni furono nove. Per la scritta, non ci fu molto da scegliere: l’unica ditta che intendeva reclamizzare un prodotto idoneo ad una presentazione bipartita era una società di cosmetici. Enrico e Laura firmarono, ritirarono l’assegno, ricevettero uno scontrino e discesero al centro grafico. Una ragazza in camice bianco pennellò loro sulla fronte un liquido dall’odore pungente, li espose per pochi minuti alla luce azzurra ed abbagliante di una lampada, e stampigliò ad entrambi, verticalmente al di sopra del naso, un giglio stilizzato; poi, sulla fronte di Laura, scrisse in elegante corsivo: «Lilywhite, per lei», e sulla fronte di Enrico, «Lilybrown, per lui».

Si sposarono dopo due mesi, che per Enrico furono piuttosto duri. In ufficio, dovette dare un buon numero di spiegazioni, e non trovò nulla di meglio che esporre la pura verità; anzi, la verità quasi pura, perché non fece parola di Laura, e attribuì alla propria fronte tutti i nove milioni: la cifra non la tacque, perché temeva che gli rimproverassero di essersi venduto per poco. Alcuni lo approvarono, altri lo disapprovarono; non gli parve di riscuotere simpatia, e tanto meno gli parve che riscuotesse attenzione il profumo che la sua fronte vantava. Era combattuto da due spinte contrastanti: spiattellare a tutti l’indirizzo dell’agenzia, per non essere solo; o invece tenerlo segreto, per non deprezzarsi. Il suo imbarazzo si attenuò parecchio qualche settimana dopo, quando vide il Molinari, serio e intento come sempre dietro al suo tecnigrafo, che portava scritto in fronte: «Denti sani con Alnovol».

Laura aveva, o si faceva, meno problemi. In casa, nessuno aveva trovato nulla a ridire, anzi, sua madre si era affrettata a presentarsi all’agenzia, ma l’avevano rifiutata dicendole apertamente che la sua fronte aveva troppe rughe per essere utilizzabile. Laura aveva poche amiche, non studiava più e non lavorava ancora, cosi non le era difficile tenersi in disparte. Girava i negozi per via del corredo e dei mobili, e si sentiva guardata, ma nessuno le faceva domande. Decisero di fare il viaggio di nozze in auto, con la tenda, ma evitando i camping organizzati, ed anche dopo che furono tornati si trovarono d’accordo nel presentarsi in pubblico il meno possibile: cosa non molto gravosa per due giovani sposi, per di più indaffarati a mettere su casa. Tuttavia, entro pochi mesi il loro disagio era quasi scomparso: l’agenzia doveva aver fatto un buon lavoro, o forse altre agenzie l’avevano imitata, poiché non era ormai più raro incontrare per strada o sul filobus individui dalla fronte segnata. Per lo più erano giovani o ragazze attraenti, molti erano visibilmente degli immigrati: nella loro scala, un’altra giovane coppia, i Massafra, portava scritto in fronte, in due versioni gemelle, l’invito a frequentare una certa scuola professionale per corrispondenza. Fecero presto amicizia, e presero l’abitudine di andare insieme al cinema, e a cena in trattoria alla domenica sera: un tavolo era riservato per loro quattro, sempre lo stesso, in fondo a destra entrando. Si accorsero in breve che anche un altro tavolo, contiguo al loro, era frequentato abitualmente da gente segnata, e venne loro naturale di attaccare discorso e di scambiarsi confidenze sui rispettivi contratti, sulle esperienze precedenti, sui rapporti col pubblico, e sui piani per l’avvenire. Anche al cinematografo, quando era possibile, prendevano posto nelle poltrone che stavano a destra entrando, perché avevano notato che diversi altri segnati, uomini e donne, usavano sedersi di preferenza in quei posti. Verso novembre, Enrico calcolò che un cittadino su trenta portava qualcosa scritto sulla fronte. Per lo più erano inviti pubblicitari come i loro, ma si incontravano talvolta sollecitazioni o dichiarazioni diverse. Videro in Galleria una giovane elegante che recava scritto in viso «Johnson boia»; in via Larga, un ragazzo dal naso rincagnato come i pugili che recava «Ordine = Civiltà»; fermo ad un semaforo, al volante di una Minimorris, un trentenne con le basette che recava «Scheda bianca! »; sul filobus numero 20 due graziose gemelle, appena adolescenti, che portavano scritto in fronte, rispettivamente, «Viva il Milan» e «Forza Zilioli». All’uscita di un liceo, un’intera classe di ragazzi recava scritto «Sullo go home»; incontrarono una sera, in mezzo alla nebbia, un personaggio indefinibile, vestito con vistosa pacchianeria, che sembrava ubriaco o drogato, e sotto la luce di un lampione rivelò la scritta «INTERNO AFFANNO».

Era poi diventato comunissimo trovare per strada bambini che portavano in fronte, scarabocchiati con una penna a sfera, viva e abbassi, ingiurie e parole sporche. Enrico e Laura si sentivano dunque meno soli, ed anzi, incominciavano a provare fierezza, perché si sentivano in certa misura dei pionieri e dei capostipiti: erano anche venuti a sapere che le offerte delle agenzie erano addirittura precipitate. Nell’ambiente dei vecchi segnati correva voce che, per una scritta normale, su di una sola riga e per tre anni, ormai non si offrissero più di 300000 lire, e il doppio per un testo fino a trenta parole con un marchio d’impresa. A febbraio ricevettero in omaggio il primo numero della «Gazzetta dei Frontali». Non si capiva bene chi la pubblicasse: per i tre quarti, naturalmente, era zeppa di pubblicità, e anche il quarto residuo era sospetto. Un ristorante, un campeggio e vari negozi offrivano ai Frontali modesti sconti sui prezzi; si rivelava l’esistenza di un club, in una viuzza di periferia; si invitavano i Frontali a frequentare la loro cappella, dedicata a san Sebastiano. Enrico e Laura ci andarono una domenica mattina, per curiosità: dietro l’altare era un grande crocifisso di plastica, e il Cristo portava scritto INRI sulla fronte anziché sul cartiglio.

Press’a poco allo scadere del terzo anno del contratto, Laura si accorse di aspettare un bambino, e ne fu lieta, benché, con i recenti aumenti del costo della vita, la loro situazione finanziaria non fosse brillante. Andarono dal Rovati a proporre un rinnovo, ma lo trovarono assai meno gioviale di un tempo: offerse loro una cifra irrisoria per un testo lungo ed ambiguo in cui si vantavano certe filmine danesi. Rifiutarono, di comune accordo, e scesero al centro grafico per la cancellatura; tuttavia, a dispetto delle assicurazioni della ragazza in camice bianco, la fronte di Laura rimase ruvida e granulosa come per una scottatura, e poi, guardando bene, il giglio stilizzato si distingueva ancora, come le scritte del Fascio sui muri di campagna.

Il bambino nacque a termine, regolarmente: era robusto e bello, ma, inesplicabilmente, portava scritto sulla fronte «OMOGENEIZZATI CAVICCHIOLI». Lo portarono all’agenzia, ed il Rovati, fatte le opportune ricerche, dichiarò loro che quella ragione sociale non esisteva in alcun annuario, ed era sconosciuta alla Camera di Commercio: perciò non poteva offrire loro proprio niente, neppure a titolo di indennizzo. Gli fece ugualmente un buono per il centro grafico, affinché la fronte del piccolo fosse cancellata gratuitamente.