14 febbraio, San Valentino – CHRISTIAN BOBIN, E che lo si lasci in pace

VINCENT VAN GOGH, Paesaggio con coppia che cammina e luna crescente – 1890

Lo stato di crisi è lo stato naturale del mondo: una guerra dopo l’altra, un’invenzione dopo l’altra, un fatturato contro un tasso di suicidi, una carestia per dei profumi di lusso. Al mondo si mescola tutto. Al mondo va tutto assieme, tranne l’amore. Non va assieme a niente. Non è da nessuna parte. Manca. Manca come il pane nei periodi di guerra, come il respiro nella gola dei moribondi. Manca come il tempo nei giochi dell’infanzia. È che serve tempo per amare, talmente tanto tempo che non basta per rispondere ai bisogni dell’amore in noi, alle domande dentro di noi della voce, del sangue, del sangue latteo nella voce firmamento. La cometa dell’amore ci sfiora il cuore solo una volta per eternità. Occorre vegliare per vederla. Bisogna aspettare tanto, tanto, tanto. È questo lo stato naturale dell’amore. È questo il suo stato principesco, la meraviglia della sua natura: attendere, attendere, attendere. Il più lontano possibile dalla fretta e dal rumore. Il più lontano possibile da ogni crisi. Attendere con calma. Attendere con pazienza. L’amore, e la poesia che è la sua coscienza aerea, la sua più umile figura, il suo volto al risveglio, è profondità dell’attesa. Speranza dolce e profonda e luminosa. Nel dodicesimo secolo Chrétien de Troyes crea Parsifal il Gallese. Il dodicesimo secolo è come il ventesimo. Tutte le cifre si equivalgono, tutti i secoli hanno a che fare con la stessa necessità di mangiare, di lavorare per mangiare, di battersi per lavorare e perdere il proprio sangue e il proprio tempo dalla stessa ferita, negli stessi furori indecisi. Parsifal si risveglia alla fine del dodicesimo secolo, monta a cavallo, sua madre non voleva che diventasse cavaliere, le madri la sanno lunga sul mondo, molto più di quanto sappiano dire, ma i figli disobbediscono alle madri e Parsifal, circondato di luce, avvolto di luce materna, va di castello in castello, di torneo in torneo, alla ricerca di non sa che cosa, di quasi nulla forse, del Graal, non sa nemmeno cosa sia il Graal, non sente niente del libro che attraversa, è stanco, Parsifal, è faticoso cercare quello che si ignora di cercare, è faticoso servire un re prostrato, una regina un po’ troppo bella, delle giovani donne troppo piene di sé in un mondo indaffarato, agitato, in crisi. La fatica è una delle cose al mondo più interessanti a cui pensare. È come la gelosia, come la menzogna o come la paura. È come quelle cose impure che si tengono lontane dagli occhi. Come quelle cose, ci fa toccare terra. Il primo volto della fatica, nella vita, è quello della madre, è il suo viso sfinito di solitudine. I bambini nella prima infanzia portano il sogno, le risa e la fatica soprattutto, la fatica innanzitutto. Le notti saccheggiate, la felicità gravosa. All’improvviso la fatica bussa alle due porte sacre: l’amore e il sonno. L’amore che lei consuma come acqua sulla pietra. Il sonno che lei accumula come acqua sull’acqua. La stanchezza è la barbarie del sonno nell’amore, l’incendio del sonno su ettari d’amore. La stanchezza è come una cattiva madre, come una madre che non si alza più di notte per allietarci con la sua voce, per colmarci delle sue braccia. Da cosa si riconoscono le persone stanche. Agiscono senza sosta. Non si concedono lo spazio di un riposo, un silenzio, un amore. Le persone stanche concludono affari, costruiscono case, seguono una carriera. È per fuggire alla fatica che fanno tutte queste cose, ed è rifuggendola che le si sottomettono. Al loro tempo manca il tempo. Ciò che fanno sempre di più, lo fanno sempre meno. Alla loro vita manca la vita. Tra loro e loro stessi c’è un vetro. Fiancheggiano il vetro di continuo. La stanchezza si legge loro nei tratti, nelle mani, sotto le parole. La fatica è in loro come una nostalgia, un desiderio impossibile. Vanno come Parsifal, come il giovane uomo separato dalla madre, da una pianura a un fiume, da un fiume a una montagna, da una montagna a una pianura. Cosa cerca, Parsifal. Non lo sa nemmeno lui, non l’ha mai saputo, si concede appena il tempo di dormire in castelli deserti, al suo risveglio passa da un’avventura all’altra e poi un giorno trova: un’oca cinerina passa nel cielo grigio, la freccia di un cacciatore la colpisce sotto un’ala, tre gocce di sangue cadono sulla neve. Parsifal smonta dal cavallo, si avvicina e si china, guarda le tre macchie di sangue rosso sulla neve bianca. Guarda e guarda. Per ore e ore. Con la loro forma, il colore, il gioco che creano, le tre gocce di sangue gli dicono qualcosa, gli ricordano il viso di una giovane donna, gli ricordano quanto avesse amato quel volto quando l’aveva visto, quanto grande fosse la propria ignoranza dell’amore che proveniva da quel volto, nell’istante stesso in cui arrivava, su un fondo d’infanzia, su una tela di neve. Non si muove più. La fatica non ha più presa su di lui, gli esce fuori, non sa più rientrargli dentro poiché lui non é più sé, poiché lui in quell’amore c’è solo da lontano, poiché lui non é altro che la propria assenza nell’amore che regna incontrastato. Da cosa si riconosce ciò che si ama. Da quell’accesso improvviso di calma, da quel colpo diretto al cuore e dall’emorragia che ne consegue, un’emorragia di silenzio nella parola. Ciò che si ama non ha nome. Si avvicina a noi e ci appoggia la mano sulla spalla, prima che riusciamo a trovare una parola per fermarlo, per dargli un nome, per fermarlo dandogli un nome. Ciò che si ama è come una madre, ci partorisce e rigenera mille volte. Tre gocce di sangue. Tre parole rosse sulla via bianca. Dei cavalieri vengono a cercare Parsifal, il re gli vuole parlare. Lui non risponde, sempre chino sulla neve rossa, indifferente a quelli che lo vogliono portare via, lontano, nel mondo affaticato, faticoso. La poesia comincia lì, in quel capitolo, verso la fine del dodicesimo secolo, su cinquanta centimetri di neve, quattro frasi, tre gocce di sangue. La poesia, la fine di tutte le fatiche, la rosa d’amore nelle nevi della lingua, il fiore dell’anima sul filo delle labbra. È in quel secolo, in quella furia di affari, di debiti di sangue e guerre d’onore che i trovatori prendono un nome di donna tra i denti e lasciano salire il loro canto, una fiamma blu nel cielo franco. È in quel mondo senza uscita che inventano una via d’uscita, la porta di un solo nome in tutte le lingue, il richiamo di uno solo per una soltanto, e la terra presa nella stella di quel canto, illuminata nel gioco quella voce. È in quel tempo che nasce una nuova figura d’uomo, immobile, assente. Immobile sulla neve bianca, chino sull’assenza rossa, non desidera più nient’altro al mondo; e lo si lasci in pace nella contemplazione del suo amore. Per ore, giorni, secoli. E lo si lasci in pace. Sempre, sempre.

Christian Bobin, Mille candele danzanti – Ed. Camelozampa

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