PASSI AVANTI, PASSI DENTRO – Le 52 gallerie del Pasubio

Parlando di viaggio, non ci riferiamo certo all’avventura turistica. Per la mentalità del reporter, il viaggio significa sfida e sforzo, fatica e sacrificio, un compito arduo, un ambizioso progetto da portare a termine. Viaggiando, sentiamo che sta accadendo qualcosa di importante, che partecipiamo a un eventi di cui siamo nello stesso tempo testimoni e creatori, che adempiamo a un dovere, che siamo responsabili di qualcosa. Tanto per cominciare, siamo responsabili della strada che percorriamo. Spesso sappiamo perfettamente che la percorreremo quell’unica volta, che non ci torneremo mai più, e che quindi non abbiamo il diritto di trascurarne o perderne il minimo dettaglio. Dettagli di cui renderemo conto, su cui scriveremo relazioni o racconti e che riepilogheremo nel nostro esame di coscienza. Per questo viaggiamo concentrati e con l’orecchio sempre in ascolto. La strada che si percorre è importante, poiché ogni passo ci avvicina all’incontro con l’altro. E’ per questo che ci siamo messi in viaggio. Qale altro motivo avrebbe potuto indurci ad affrontare fatiche, rischi, scomodità e pericoli? Non è solo il viaggio intrapreso volontariamente, il viaggio come forma di vita, a essere una rarità. Anche una forte curiosità per il mondo è unfenomeno raro. Alla maggior parte delle persone esso interessa ben poco. La storia conosce intere civiltà che non hanno mostrato il minimo interesse per il mondo esterno.

Ryszard Kapuściński, L’ALTRO
Giacomo Feltrinelli Editore,  Super UE

Iniziato l’attacco esso dev’essere condotto con la massima risolutezza e colla volontà ben determinata di conquistare la posizione nemica a qualunque costo, altrimenti non sarà possibile ottenere  la demoralizzazione dell’avversario ed il conseguente annientamento materiale.

Luigi Cadorna, ATTACCO FRONTALE E AMMAESTRAMENTO TATTICO  
Comando del Corpo di Stato Maggiore – Circolare n.191 del 25 febbraio 1915
Principi fondamentali per lo svolgimento dell’azione offensiva – Parte V –

 

Un solo posto auto libero fra la manciata di parcheggi non a pagamento presenti al passo Xomo: lo considero un segno d’accoglienza, la tangibile dimostrazione che il Pasubio ci stava aspettando. Lasciare l’auto in questo punto era desiderio ma anche bisogno di stare alla larga dai grandi parcheggi, identici a quelli di un centro commerciale, presenti poco più avanti a Bocchetta di Campiglia, porta d’ingresso alla strada delle 52 gallerie.

E’ pomeriggio avanzato; il percorso da Rovereto ci ha preso più tempo del previsto e solo la tarda ora ci ha obbligato a rinunciare ai numerosi luoghi storici indicati, come adorate copertine di antichi tomi, dai cartelli marrone scuro.

Togliamo dal mezzo gli zaini, assicurandovi tenda e sacco a pelo, per imboccare subito il sentiero: sia io che Sara, diamo un occhio ai vari segnavia così come al cielo tutt’altro che estivo, ma senza badarci troppo. Distanze, dislivelli e meteo (alla fine cammineremo per circa 23 km e 1.500m d+, prendendo anche un po’ di pioggia) ci risultano secondari, ininfluenti… Un po’ per le nostre abitudini, un po’ per sentirci meno “viziati” di quanto già siamo, se paragonati a coloro che dal 24 maggio 1915 ( inizialmente furono gli alpini del battaglione Vicenza) e fino al 1 novembre 1918 (2 giorni prima dell’armistizio di Villa Giusti) si alternarono su questa montagna.

A Bocchetta Campiglia ci fermiamo giusto il tempo per togliere dallo zaino quello che sempre serve in montagna, ma ancor più sui sentieri storici: attenzione e silenzio. La zona è movimentata e poco incline al nostro atteggiamento; andiamo oltre, con la certezza che ad ogni passo leggeremo un libro di storia e storie, inciso, a mano o con esplosivi, sulla roccia. 

Sara contrariamente alle sue abitudini cammina senza foga e prosegue a breve distanza così che ciascuno possa muoversi al ritmo del proprio sentire. Non v’è alcun rischio di perdersi, la traccia è solo una, ben battuta quanto evidente così i passi vanno avanti, ma anche dentro… 

Sebbene il nostro incedere non sia affrettato, non manchiamo di superare altre persone, fra queste un gruppo di ragazzi tedescofoni. Avvicinandomi loro mi vien la tentazione di chiedergli se nella Strafexpedition v’erano i loro nonni ma anche se sono consapevoli di questa Europa Unita che unendoci sotto una stessa bandiera ci permette di incontrarci senza tenere fra le mani Carcano Modello 91 o Steyr-Mannlicher M1895. Eppure, parrà strano ed inusuale, ma non riusciremo a salutare e tantomeno a scambiare parole con nessuno sui sentieri: che vi sia una sorta di incantesimo? 

Questa strada militare, realizzata in meno di 10 mesi (febbraio/novembre 1917) si sviluppa per un terzo dei suoi 6.500 metri in gallerie, alcune delle quali di forma elicoidale. Costò sicura fatica questo progetto volto ad assicurare comunicazioni e rifornimenti al riparo dal fuoco nemico, anche se a ben vedere le vite che vennero qui risparmiate si riversarono sulla sanguinosa prima linea. Basti sapere che nella sola battaglia del 2 luglio 1916, 2797 furono le perdite italiane e 587 austriache; oppure che dal 9 al 20 ottobre 1916 gli italianai persero 4.370 soldati e gli austriaci 3.492.  Paesi. Paesi, interi. 

Salendo le nuvole si addensano e una finta pioggia bagna senza infastidire mentre il sentiero corre a sud, a mezza costa, regalando fra indecise nuvole, scorci di pianura: in un punto suggestivo scorgo Sara che oltre a fermarsi mi indica qualcosa fuori traccia. 

Una stella alpina, ci guarda nella sua semplice natura: insieme agli altri fiori alpini saranno gli unici ad offrirci spunti e nostalgia di bellezza. Rappresentanti di una natura, anch’essa vittima di artiglierie e mine, capace però di auto medicarsi, dimenticando fratture e amputazioni ancora ben evidenti fra gli avvallamenti dell’altopiano. 

Inadeguati
ieri, come oggi.
E ancora non capiamo.

Continuiamo a superare altri escursionisti. Più volte “avvistiamo” una coppia intenta a baciarsi, che appena ci intravede si scioglie,  rimettendosi in cammino: beato chiunque qui porti baci ed amore. V’è poi una famiglia; alcuni dei suoi elementi che calzano sandali di gomma, mi fan pensare che equipaggiamenti inadeguati non v’erano solo in guerra. Vi sono infine alcune rientranze nella roccia, una volta ristori e ripari, oggi improvvisati bagni dove fazzoletti bianchi sbandierano l’attuale inciviltà.

Nella guerra rifugio
oggi abusivo bagno.
S’urina sulla memoria.

Intuiamo di essere ormai prossimi alla selletta delle Porta del Pasubio ed al rifugio Achille Papa che poco prima delle ultime gallerie compare, addossato ad una parete rocciosa, nella sua tenue vesta gialla: somiglia un uomo che con le spalle indietreggia nel timore di precipitare nella sottostante Val Canale. 

Sicuro riparo
da vento e bombe.
Come madre, il rifugio.

Ci avviciniamo al rifugio, che sorge proprio dove 100 anni fa erano presenti ricoveri in muratura e baracche, chiamati el Milanin, la piccola Milano e prima d’essere accolti dai protocolli Covid, siamo raggiunti dalle parole d’una lapide: “Chi ha salito senza palpiti d’amore/questo Calvario della Patria;/ chi non sosta con animo purificato/su questa roccia gloriosa,/non entri in questo Rifugio,/né contempli da queste libere altezze/ la dolorante fecondità del piano e il mistero dei cieli.” Condividiamo ogni verso e l’urgente necessità di simili parole perché è fin troppo evidente: l’uomo d’oggi non rivolge attenzione ai suoi simili, figuriamoci ad un luogo …

Il rifugio è semi deserto. Il tempo d’un the caldo così come di assicurarci la cena e ci rimettiamo in cammino, raggiungendo il bivacco Marzotto-Sacchi e fra fresche nebbie il Sentiero Tricolore fino al Cogolo Alto.

Un Regio Decreto del1922 rese questa area “Zona Sacra”, una beatificazione che rende grazia ad ogni struttura, oggetto, centimetro incontrato, trasformando anche i resti arrugginiti di filo spinato che spuntano fra le rocce, in preziose reliquie.

Impigliati ancora
fra reticolati e trincee.
Impossibile non lacerarsi.

Compare il rudere di una struttura militare per le retrovie; s’intuiscono traiettorie di teleferiche che comunicavano col fondo falle ed un grande bacino d’acqua con un lavatoio in cemento. Ai 2.232 metri di Cima Palon ci infiliamo nelle gallerie non senza timore e scendendo alla Selletta Damaggio giungiamo al Dente Italiano sotto al quale, macabro tesoro, giacciono decine di uomini, vittime di mine.

Una preziosa brezza spazza le nuvole ma anche ogni dubbio sul senso di questa guerra: dinanzi a noi, a meno di 200 metri, la terra di nessuno della selletta dei Denti ed oltre il Dente Austrico con i suoi 3 piani. Uno per 10 postazioni di mitragliatrice, uno per 6 pezzi d’artiglieria e l’altro per la logistica che prevedeva lanciabombe, lancia granate, lancia fiamme.

Non c’è nessuno, siamo solo noi e questo evita ogni distrazione, anche se qualcuno dice che per capire la trincea, più che di solitudine, ci sia bisogno d’inverno, fame, odori. 

Qui dove i due schieramenti erano tanto vicini da poter dialogare ed i pidocchi saltavano dalla regia divisa a quella imperiale, si visse l’indescrivibile, con diverse strategie. Dal maggio 1915 fino a metà del 1916 fu la presa del fronte e lo stazionamento, poi vennero gli attacchi frontali ed infine si consolidarono le retrovie volendo offendere con mine. La più potente fu austroungarica, preparata con 50.000 kg di esplosivo e brillata alle 4:30 del mattino del 13 marzo 1918: modificò così profondamente il terreno rendendolo tanto instabile da impedire ulteriori scavi per altri ordigni. Ciò che è certo e riconosciuto anche dai Kaiserjäger, fu il coraggio e l’astuzia costante degli alpini, definiti dai nemici “Teufel mit der Feder”, Diavoli con la penna.

Sulla trincea
una stella alpina.
Insanguinato bianco.

Il camminare diviene desolato, rasserenato solo da camosci e tanti fiori, alcuni dei quali nelle trincee stesse. Avanzo con passo saldo eppure percepisco un barcollare che nei modi s’appoggia alle traballanti Gnossiennes di Satie; con un simile moto entro ed esco dalle trincee, dalle gallerie, ricercando qualche cimelio. Trovo così una scheggia di ferro arrugginito, grande quanto una moneta e proveniente chissà da quale proiettile: la raccolgo e la prendo meco. “Recuperante” d’oggigiorno, di certo non lo scambierò col pane, solo lo custodirò come un prezioso reperto e ricordo. 

Lo tengo stretto fra le dita e nel mentre perdiamo quota, passando dalle Sette Croci, dal Cocuzzolo dei Morti e poi alla Chiesetta di Santa Maria del Pasubio dove intuiamo la Selletta Comando in corrispondenza di numerose grotte scavate nella roccia. La discesa prosegue fino all’arco Romano e al cimitero realizzato nel 1916 dalla Brigata Liguria dove diverse lapidi portano semplicemente inciso “Caduto per la Patria” ed una cassa di legno con un cartello, invita a depositarvi quei resti umani, che ancora affiorano sulla terra.

Anonimi di guerra
battezzati come omonimi.
“Caduto per la patria”

Siamo ormai prossimi al Rifugio e l’anello disegnato dai nostri passi – che non infilato sulle dita, peserà nel cuore – sta per chiudersi. Con la sensazione che rientreremo nella “normalità” mi siedo sotto le parole in ferro battuto che riportano il motto della brigata Liguria: “Di qui non si passa” e chiudendo gli occhi, immagino… 

Impietrito cuore
e dolore lancinante.
Eppure, tutto passa.

Immagino d’interrogare, incoraggiato dai suoi baffoni da nonno, il Generale Luigi Cadorna, invitandolo innanzitutto a togliersi la maschera, così come dovrebbe fare ogni uomo che fra le mani tiene il destino di molti, politico, dirigente di banca o dottore che sia…

«Perché all’età della presunta saggezza dei 65 anni hai racchiuso tutt’altro nel tuo “Libretto rosso”? Perché non pensavi a quei ragazzi come ai tuoi figli o nipoti? Perché alcuni soldati morivano sapendo che a casa, una moglie gravida, avrebbe partorito un figlio già orfano? Perché esistevano i gueules cassées, volti fracassati? Perché passavi ordini che personalmente non avresti mai eseguito?».

Ritornato alla realtà, cominciamo la ricerca di un pianoro erboso dove piantare la tenda, inviando invisibili richieste di “permesso” e “concessione” a questa montagna, affinché ci accolga come ospiti. La terra sotto i nostri piedi ha sempre memoria e non possiamo ignorare quel sangue che l’ha irrigata, così come storie e leggende che l’accompagnano (dalla baldoria di fantasmi alla sensitiva “respinta” dall’anima del rifugio), senza dimenticare poi la presenza di quell’inspiegabile che qui, come ovunque, ci circonda. Montiamo e lasciamo la tenda poco lontano da una malga, con la “porta” ad est verso il sole, infilandoci successivamente al Rifugio Papa per la cena.

Il Covid impedisce la solita giovialità di queste case di montagna, distanze e mascherine coprono infatti conversazioni e la condivisione tipica dei rifugi. E’ una cena calda, genuina che farebbe impazzire i soldati della grande guerra che dividevano pagnotte alla segatura in 8 (ottenendo a turno le briciole del taglio), piuttosto che una scatoletta di carne da 500 grammi in 4. Concludo la serata con la grappa, stesso alcolico foraggiato dall’esercito per alleviare magoni ed infondere coraggio. Inspiro il suo profumo e la sorseggio, consapevole che il suo profumo in prima linea era pessimo segno: la sua distribuzione (sentita pure dal nemico) indicava l’assalto imminente. 

Ritorniamo alla tenda: fuori è il Pasubio e la sua silenziosa voce. Inspiegabilmente non v’è alcuna sensazione di paura o timore, solo la percezione di sentirsi protetti da quel che resta di quei tanti uomini che per le loro progenie, qui si alternarono. Mi avvicino a Sara, nella presunta coccola di due sposi infilati nei rispettivi sacchi a pelo e ci addormentiamo affidandoci all’ospitante terra. 

Il sonno resta però leggero: fuori il vento e lontani bagliori temporaleschi animano la tenda, alimentando la suggestione di cannoneggiamenti e relativi spostamenti d’aria. Non sono ancora le 5.30 quando all’orizzonte comincia lo spettacolo recitato dai profili delle montagne, da basse bianche nuvole e dal sole che cerca di vincerle. Benediciamo silenziosamente la luce per il privilegio di poter cogliere questo momento: non a tutti è concesso…

Per chiunque l’alba,
sorpresa e spettacolo.
Ma non per chi soffre.

Il resto è colazione al rifugio, sistemazione della nostra casa di teli ed un indugiare che mi impedisce di mettere lo zaino in spalla. Nella mano è quel piccolo cimelio, raccolto poco distante e custodito nella tasca più vicina al cuore per tutto il tempo. Sento che non m’appartiene ed incapace di una spiegazione, semplicemente m’affido a ciò che sento… Inginocchiandomi lo rimetto a terra, lì, dove sono, con la decisione e dolcezza che si dovrebbe ad ogni seme. 

Mi rialzo, cerco la mano di Sara, sostituisco il pezzo di morte, con un pezzo di vita per poi avviarci. Scivoliamo dolcemente a valle per la panoramica strada degli Scarrubbi salutati dapprima da uno stormo di gracchi e poi da un inaspettata sorpresa: scorto con l’ultimo sguardo all’indietro a salutare il paesaggio, un arcobaleno. Il Pasubio sussurra: “Sono in pace.”

Nuove materie belliche:
balistica d’arcobaleni.
Traiettorie di pace.

 

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10 DICEMBRE 1936, muore LUIGI PIRANDELLO – Uno, nessuno e centomila.

 

IV. Non conclude.

Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berret­to, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio.
Non mi sono piú guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quel­lo che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí di­verso da quello di prima, che avrebbero potuto rispar­miare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli ap­partenesse.
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe fu­neraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli ap­parvi, e la lasci in pace non ne parli piú. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Al­bero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissi­mo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio ser­bare lo spirito cosí, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassa­te sui monti lividi, che fanno parere piú larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’es­si, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appan­nati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma sen­za stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste car­raie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’a­ria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non ve­ dere piú nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Cosí soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle cam­pane le odo non piú dentro di me, ma fuori, per sé sona­re, che forse ne fremono di gioia nella loro cavità ron­zante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e cosí alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho piú questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non piú in me, ma in ogni cosa fuori.