Che senso ha parlare di resilienza? UMBERTO GALIMBERTI

È davvero possibile applicare all’uomo un concetto tratto dalla capacità di un materiale di resistere agli urti?

Vorrei chiederle cosa ne pensa dell’utilizzo ormai dissennato della parola resilienza in tutti gli ambiti scientifici e non, come se fosse la panacea per tutti i mali della società contemporanea. Ogni volta che sento utilizzare questa parola provo una profonda inadeguatezza e tristezza, forse perché io non mi sento assolutamente resiliente alle prove della vita. Paola 

Anche io non amo questo termine, e ogni volta che lo sento mi viene in mente quel che diceva Kant a proposito degli psichiatri: “Ci sono dei medici, i medici della mente, che quando trovano un nome pensano di aver individuato una malattia”. Lo stesso dicasi per il termine “resilienza” che gli psicologi spesso usano, forse per dare un’apparenza di scientificità alle loro competenze, prelevando il termine dalla fisica, dove è impiegato per indicare la capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi. Il termine fu in seguito adottato anche dall’ecologia per segnalare la capacità di un ecosistema di resistere a un livello di degrado all’apparenza irreversibile. Da ultimo il termine è stato adottato anche in ambito economico in ordine alla capacità di un’impresa di resistere e saper cogliere opportunità anche in periodi di grave recessione.


La condizione di “resilienza” era già stata segnalata nella Grecia antica dagli Stoici, secondo i quali il dolore, al pari della gioia, appartiene alla vita e siccome non è una punizione degli dèi e non rende migliori, non resta che reggerlo (substine) e astenersi dal metterlo in scena (abstine). A loro parere l’unico bene che l’uomo dovrebbe perseguire è la virtù che ha nomi diversi a secondo dei domini cui è riferita: la saggezza verte sui compiti dell’uomo, la temperanza sugli impulsi, la fortezza sugli ostacoli, la giustizia sulla distribuzione dei beni. Temperanza e fortezza, che sono termini chiari e comprensibili, dicono meglio di resilienza come si perviene a quell’ideale della condotta umana che gli Stoici chiamano controllo di sé, fino a raggiungere il massimo equilibrio nella gestione delle passioni, delle emozioni e del dolore.

Prelevare dalla fisica un termine (resilienza) per dire temperanza, fortezza e controllo di sé, significa trattare l’uomo alla stregua di un materiale fisico che resiste all’urto senza spezzarsi, e trascurare il fatto che l’uomo non è una cosa, perché in lui si agitano passioni, emozioni, sentimenti, angosce, dolori, fantasie, ideazioni, immaginazioni, sogni, sollecitazioni che provengono dal mondo che lo sollecitano e lo impegnano, lo illudono e lo deludono, lo esaltano e lo abbattono, in quel gioco vertiginoso, precario e incerto che è la vita, dove non basta resistere come vorrebbe la “resilienza”. 

Quando lei non si sente “resiliente” alle prove della vita non è un motivo per abbattersi, perché vorrei sapere se i “resilienti” che sanno resistere sono ancora capaci di comprendere chi non ce la fa, e quindi di assisterli, confortarli, aiutarli. Se conoscono, oltre alla loro “resilienza”, anche la pietas, l’accudimento, il soccorso, la cura. Perché solo chi conosce la propria debolezza è in grado di comprendere la debolezza altrui e di saperla soccorrere con parole che non siano di generico incoraggiamento, ma di autentica partecipazione, che appartiene solo a chi ha vissuto quella che potremmo chiamare la “fatica di vivere” che, essendo comune a tutti gli uomini, genera quella che Schopenhauer chiamava “compassione”, nell’accezione più alta che non è quella di “compatire”, ma di “partecipare” a quel “patire comune di cui nessuno può dirsi immune.


Di partecipazione e non di resistenza alle difficoltà della vita abbiamo bisogno. Di socialità e non di orgoglio individuale ostentato da chi per una volta ce l’ha fatta, perché la precarietà dell’esistenza è sempre sulla soglia della nostra vita e può irrompere in qualsiasi momento, senza nessuna garanzia di potercela ogni volta fare senza l’aiuto dell’altro che conosce cosa stiamo vivendo per averlo a sua volta vissuto. Mettere in comune le sconfitte della vita mi pare molto più interessante che resistere, e decisamente più utile per tentare, come lei dice, di porre rimedio ai mali del la società contemporanea regolata da un insopportabile ed esasperato individualismo.

GALIMBERTI UMBERTO Resilienza – D la Repubblica 23 Gennaio 2021